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26/08/2006: Mons. Fragnelli, di ritorno dal Brasile, parla delle Missioni. Anche gli altri partecipanti al viaggio danno una loro breve testimonianza. Il punto sul gemellaggio Castellaneta-Proprià

Missionario è chi, libero perché legato alla Parola, non si lascia schiacciare dalla dimensione sociale, non si lascia segregare in quella cultuale e non chiede il permesso a nessuno per rispondere al mistero dell'Incarnazione ed essere attento all'uomo.
Una intera pagina sul quotidiano locale tarantino, dedicata al recente viaggio in Brasile. Oltre alla
» PAGINA INTEGRALE (107 kb)
pubblichiamo anche i pdf dei singoli interventi, per comodità di lettura:
» L'altra cattedra (intervista di M. Cristella a Mons. P.M. Fragnelli, leggibile
       anche nel dettaglio della news)
(119 kb)
» Due medici e una speranza da ritrovare (M.T. Daniele e M. Pinto) (107 kb)
» Don Vincenzo: il carisma del sorriso (Lorella Perniola) (107 kb)
» Si va per dare, ma si riceve (Domenico Sgobba) (109 kb)
» Le ricchezze di questi poveri (Don Domenico Cantore) (107 kb)
» Dai doni nuziali alle adozioni a distanza (Cronistoria gemellaggio) (107 kb)
Fonte: Corriere del Giorno    Autore: M. Cristella e L. Perniola

Dettaglio della news

CASTELLANETA - I missionari, quelli che, come il Gesù dell’Ultima cena, si tolgono il mantello e si cingono con un asciugatoio: quasi un gesto di grata riverenza verso coloro dai quali conoscono cos’è la vita sempre sul limite: della sopravvivenza e della dignità umana. “Il Brasile, dice mons. Fragnelli, è terra del carnevale, del sesso ostentato, di campioni di calcio, ma soprattutto è terra dei meninos de rua, bimbi soli in strada, alla mercè di ogni malvagio, di immensi latifondi, della bebita, la bevanda fortemente alcolica (casciassa tratta dal mais) della quale il sabato e la domenica s’ubriacano tutti, dei media che son solo telenovele, di donne prolifiche, che fanno otto o nove figli, però con uomini diversi, quindi relazioni familiari e sociali sfilacciate e ostili”: in una parola terra di deietti."

Con un lembo di questa terra, la diocesi di Proprià, da 17 anni è gemellata la diocesi di Castellaneta. E monsignor Pietro Maria Fragnelli è da poco tornato dal suo secondo viaggio dalla missione di Proprià.
“Ho voluto essere accompagnato, dice al Corriere mons. Fragnelli, da Domenico Sgobba, priore della più folta confraternita della diocesi, da don Domenico Cantore, parroco a Palagiano e dai coniugi Maria Teresa Daniele e Mario Pinto, due miei amici medici romani: perché la situazione fosse vista da più punti di vista. Prima venivano i missionari a raccontare la loro avventura. Oggi tocca agli educatori andare sui fronti.Anche la scuola deve prendere coscienza di quest’altro mondo. Non esperienze rischiose, ma neppure gite scolastiche che siano solo esperienze del proprio status. Bisogna andare a vedere l’altra vita, cioè dove otto o nove persone devono vivere in pochi medri quadrati, con non più di 30 euro al mese, magari quelli delle adozioni a distanza”.

Gli accompagnatori del vescovo hanno lasciato in questa stessa pagina la loro “interpretazione” di Proprià. Con Mons. Fragnelli la conversazione s’è svolta sul tema: come sia possibile, oggi, che sacerdoti e suore lascino gli agi della società del benessere e vadano a servire, o se questa parola è troppo forte, a rendersi utili a chi con essi non potrà sdebitarsi in alcun modo, o, bene che vada, li ricompenserà solo con un po’ di riconoscenza, un caro ricordo.

Monsignor Fragnelli questa visita “ad limina” non è solo una visita di cortesia...
Sì, è un’esperienza specifica per cercare il profilo del missionario. Don Vincenzo fra i suoi brasiliani ha un grande riconoscimento: gli hanno perfino dedicato una scuola. Ma la sua età avanzata pone l’urgenza di trovare più risposte. Innanzi tutto occorre salvaguardare e perpetuare un patrimonio ideale. Occorre quindi trovare una risposta operativa: mantenere la struttura di missionario che abbia una visibilità ecclesiale e
sociale, cioè che risponda al mistero dell’Incarnazione e sappia essere attento all’uomo, vedendo in ogni uomo un fratello, senza alcuna differenza. Un missionario presente nella dimensione sociale, combattivo e capace di collaborare con le istituzioni locali; ma nello stesso tempo un missionario libero nella sua dimensione religiosa, legato alla Parola, che lo fa entrare nella realtà, nella situazione socio-politica, con maggiore libertà, senza chiedere il permesso ad alcuno...
Parlando di libertà per meglio rappresentare la Parola, cioè il Vangelo, la dignità umana, il vescovo ha lo sguardo ieratico e penetrante ad un tempo, la voce ferma e il gesto lento ma sicuro. Il suo è un parlare denso, non pieno di sottintesi e allusioni, ma di tacita indicazione di effetti, che chi lo ascolta percepisce. E fa pensare: un uomo libero in un mondo dove la libertà non è diritto, e nessuno può dire se e quando lo sarà, è un uomo pericoloso per i signori dell’ingiustizia e, perciò, un uomo in pericolo, sempre sul filo del martirio; e martirio non è solo quello di don Romero, ucciso sull’altare; ma anche quello di chi va di porta in porta chiusa e si sfinisce e ogni sera ha bisogno di rivedere il suo Cristo in croce per ricominciare il suo calvario il mattino dopo. Pensieri indelicati, laceranti, ricordi di note tristizie. Eppure sembrano non finir mai quanti rinunciano a se stessi per portare sollievo agli ultimi e moniti di giustizia ai forti. Chi sono costoro?

Monsignore, dopo aver visto che cosa dev’essere un missionario, le chiedo: chi è il missionario, il sacerdote che lascia gli agi italiani per andare, per dirla con immagine evangelica, a lavare i piedi agli ultimi della terra?
Missionario è colui che accetta la sfida della tensione fra l’umano e lo spirituale, che non si lascia schiacciare sulla dimensione sociale e non si lascia segregare nella dimensione cultuale (in sacrestia)...
Ma...
Ma continuamente trova opportunità per intrecciare i due poli e testimoniare una religiosità incarnata e una socialità agganciata alle radici spirituali...

Monsignore, oltre l’”andate e predicate”, oltre il “dar da mangiare agli affamati e il vestire gli ignudi”, oltre il “ciò che avrete fatto a uno di questi lo avrete fatto a me”, che cosa spinge un uomo a diventare missionario?
Sono più d’una le molle che fanno lasciare ricchezze e sicurezze. La prima è la convinzione che i poveri hanno una lezione più convincente e più completa da dare per la pienezza di vita. Si lascia per prendere, per prendere ciò che non tutti riescono ad apprezzare e capire. Un processo spirituale che, autentico, è di liberazione del superfluo. E’ ricerca spirituale.
La seconda molla?
E’ una ricerca culturale. La convinzione che l’Occidente sia in un vicolo cieco e che ha bisogno di delocalizzarsi, di decentrarsi. Da una parte siamo oggetto di una grande invidia per il nostro benessere economico; dall’altro lato siamo molto più poveri di valori umani, di una vita vissuta con gioia, con semplicità. Questo fatto, però, ha anche un fascino morboso, quello che spinge l’Occidente a cercare i poveri...
Un voler vedere da dove si viene. E la terza molla, monsignore?
E’ una ricerca ecclesiologica. La riforma della chiesa passa da scelte profetiche, non antiistituzionali, ma di forte scossa a una sorta di falsa autosufficienza istituzionale. Una breccia all’interno della chiesa istituzionale perché prenda coscienza che il suo mistero è più ampio di quello istituzionale, vi si incarna, ma non si esaurisce in esso. Il figlio maggiore, cioè l’istituzione, è messo in crisi dal figlio minore. Dio, diceva l’apostolo Paolo, ha scelto i deboli per confondere i forti, non per abbatterli, ma per confonderli...
Per trarli fuori dalle loro sicumere.

Monsignore i laici intendiamo le missioni come carità. Le famose parole di San Paolo sulla carità, oltre ad essere alto magistero, sono anche altissima poesia. Benedetto XVI nella sua prima enciclica con le prime tre parole, Deus caritas est, par chiudere un discorso teologico.
Con la sua lettera il Papa conferma la revisione dei profili istituzionali. Egli dice che lo Stato deve promuovere la giustizia e la Chiesa deve promuovere la carità. Tornando alla nostra realtà, don Vincenzo ha un ruolo bello e rischioso: bello, perché mostra la fecondità della carità, che talvolta supplisce all’assenza dello Stato; e rischioso perché se la carità non si fa promotrice di un’adeguata opera culturale, sociale e politica rimane assistenza fine a se stessa, da non bocciare, ma che è meno del possibile e metterebbe lo Stato nelle condizioni di non occuparsi di quelle cose.

Ha un futuro questo rapporto fra due diocesi così diverse e distanti?
E’ un dono che ho trovato, qui in diocesi. E’ utile e formativo: fa aprire gli occhi su una realtà “altra” rispetto alla nostra, è una difficile scuola di umanizzazione delle relazioni, di relativizzazione degli standard di vita, come i nostri che ci fanno vivere come in un Olimpo. Possiamo promuoverne una crescita. Le adozioni a distanza possono essere interventi limitati, ma sono anche un percorso di crescita provvidenziale per le nostre famiglie con beni in esubero. Bisogna inventare canali che mettano in dialogo le nostre formazioni, uno scambio di concezioni di vita sul dolore, le malattie, la morte. E’ un alternanza alla cattedra, s’impara moltissimo da loro, dai poveri.


Intervista a cura di Michele Cristella


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